Newsletter #2
Dopo un trend di crescita positivo registrato nel quinquennio pre-Covid, oggi le cure domiciliari sono insufficienti: mancano all’appello un milione di anziani. La migrazione sanitaria dal Sud verso il Centro e il Nord Italia continua ad aumentare, ma questa può essere una “migrazione evitabile”, come si evince dall’esperienza del gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”. I fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in modo particolare con le Missioni 5 e 6, dedicate al Terzo settore e Salute, possono essere, se usati bene, uno strumento da cui ripartire. Il Covid non ha scalfito la reputazione delle aziende farmaceutiche, soprattutto di quelle che, già da prima, si sono messe in ascolto del paziente, perciò vi raccontiamo che cos’è e com’è nato il “Patient Safety Council”. Certo la malattia ci rende più fragili, ma anche per quelle per cui non esiste ancora una cura si può migliorare la qualità di vita dei pazienti grazie a Percorsi Diagnostici Terapeutici e Assistenziali, un progetto interessante in questo senso arriva da Aism, associazione italiana sclerosi multipla.
In primo Piano
Cure domiciliari, insufficienti per rispondere ai bisogni degli anziani

Nel 2020 meno di 3 individui su 100 over 65 hanno beneficiato di cure domiciliari: si tratta di tassi di copertura ben al di sotto di quelli registrati in altri Paesi europei e insufficienti a rispondere ai reali bisogni socioassistenziali della popolazione italiana anziana e fragile. A scattare questa fotografia è l’indagine “Long-term care in Italia: verso una rinascita?” di Italia Longeva, Associazione Nazionale per l’Invecchiamento e la Longevità Attiva, la onlus istituita nel 2011 dal ministero della Salute, Regione Marche e IRCCS INRCA (Istituto Nazionale di Ricovero e Cura per Anziani). «Complessivamente», evidenzia Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva, «siamo a meno di un terzo da quel 10% fissato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) per adeguarci, entro il 2026, alle buone prassi europee, che vedono punte fino al 13% in Germania (percentuale che arriva al 29% per gli ultra ottantenni), e i Paesi del nord Europa dove addirittura 1 over 80 su 3 è assistito in ADI, assistenza domiciliare integrata».
L’emergenza sanitaria, in particolare, ha mandato in tilt la rete dei servizi territoriali e le cure domiciliari non hanno fatto eccezione, subendo una battuta d’arresto dopo un trend di crescita positivo registrato nel quinquennio pre-Covid. Infatti, se tra il 2014 e il 2019 gli over 65 assistiti a domicilio sono passati da poco più di 250mila a oltre 390mila (in media un aumento di 25mila unità all’anno), pari al 2,83% dei quasi 14 milioni di anziani residenti in Italia, nel 2020 questo trend ha cominciato a decrescere, attestandosi a poco più di 385mila unità, ovvero il 2,7% degli over 65 e il 4,5% degli over 75, con Regioni in grado di garantire cure domiciliari a più del 3,5% degli anziani e altre che stentano a raggiungere tassi di copertura dell’1%.
Eppure, sottolinea Bernabei, «l’organizzazione di un efficiente sistema di cure domiciliari è una strada obbligata e non più rinviabile per la presa in carico degli anziani fragili che hanno bisogno di cure e monitoraggio continui a causa della presenza di patologie croniche concomitanti, la cosiddetta multimorbidità». In questo senso, aggiunge, «il Pnrr è, per il Servizio Sanitario Nazionale, l’occasione per modernizzare la rete dell’assistenza territoriale, dando una forte accelerazione al potenziamento delle “cure a casa”». Per raggiungere questo obiettivo ed evitare che il paziente “si perda” durante i molteplici contatti con i diversi snodi della rete territoriale, secondo l’esperto, «è indispensabile puntare sulla formazione del personale, sulle nuove tecnologie - che consentono monitoraggio e prestazioni sanitarie a casa del paziente - e poi sulla valutazione dei risultati».
Il Pnrr prevede l’introduzione delle Case di Comunità, collegate a presidi periferici secondo il modello Hub & Spoke, e degli Ospedali di Comunità quali presidi intermedi tra l’assistenza a domicilio e quella in ospedale, sarà necessario snellire i processi e renderli più efficienti, e integrare gli interventi sociosanitari in risposta ai bisogni sociali, oltre che clinici, dell’anziano fragile. «Qualsiasi dotazione di risorse», conclude Bernabei, «rischia di rivelarsi un’occasione persa se si pensa di riorganizzare la medicina del territorio senza dotarla di queste tecnologie e senza investire sulla formazione del personale coinvolto».
Migrazione sanitaria, per quante famiglie è l’unica scelta?

C’è la storia di Laura che, da un paesino di montagna, è andata all’ospedale più vicino di Salerno perché Vincenzo, il primogenito, non si sentiva bene. I tempi per accertare cosa avesse si allungavano e il piccolo continuava a soffrire. Così, insieme a suo marito, ha deciso di partire per Roma, direzione l’ospedale Bambino Gesù. Lì in cinque giorni hanno trovato un sarcoma nei tessuti molli del bambino. C’è la storia di Matteo, nato a Reggio Calabria, ad 11 mesi gli hanno diagnosticato un neuroblastoma al rene, per farlo curare la sua famiglia ha lasciato la Calabria. C’è la storia di Piero che con la moglie è partito da Taranto dopo la diagnosi di tumore al cervello del figlio. Ma in Italia quante sono le storie come le loro?
Nel libro da poco pubblicato “Viaggi con la speranza. Storie di famiglie colpite dalla malattia di un figlio” (Maltemi edizioni) - un volume a cura di Gianluca Budano, Welfare Manager pubblico, giornalista e dirigente delle Acli e Cristiano Caltabiano, sociologo e consulente dell’Istituto di Ricerche Educative e Formative - gli autori provano a fare un viaggio nella vita di chi per curarsi è costretto ad emigrare.
«Le persone non emigrano solo per motivi economici», spiega Gianluca Budano, «sono spinte a partire anche da problemi seri di salute. Nel nostro Paese questi spostamenti non sono trascurabili: nel 2017, 937mila italiani hanno compiuto un “viaggio della speranza”, per un valore di oltre 4,3 miliardi di euro di prestazioni mediche erogate fuori dalla regione di residenza dei pazienti».
Il volume analizza il costo sociale di queste migrazioni, a partire dalle statistiche ufficiali sul fenomeno, frutto di una ricerca realizzata da Iref (Istituto di Ricerche Educative e Formative - Acli) con la collaborazione del Forum delle Associazioni Familiari e dalla Società mutua MBA.
Con il decreto legislativo 512/92 è stata introdotta in Italia la libertà del paziente di scegliere la struttura di cura. La migrazione sanitaria è un fenomeno che si muove in una direzione quasi univoca: dal Mezzogiorno al Nord Italia. In generale è nelle province che si registra un’incidenza maggiore dei ricoveri al di fuori dei confini regionali, in particolar modo in contesti come Reggio Calabria (22,6%), Matera (22,5%), Cosenza (22,2%). La migrazione sanitaria ha anche un costo economico: vale tra i 353 e 211 milioni di euro, si chiama saldo passivo generato da flussi sanitari in entrata e in uscita. Le aree più interessate sono la Campania, la Calabria, il Lazio, la Sicilia e la Puglia, tutte regioni sottoposte ad un piano di rientro per i debiti accumulati nel settore della sanità.
«Curarsi in un posto distante centinaia di chilometri dalla città o dal comune in cui si vive non è mai un’esperienza priva di conseguenze, anche per chi dispone di ingenti risorse economiche», spiega Budano. «La mobilità sanitaria viene in genere considerata come espressione del diritto di scelta dei cittadini o come parametro per valutare l’efficienza dei sistemi sanitari regionali. Si tende tuttavia a sottovalutare le conseguenze, anche dal punto di vista sociale, che tali viaggi hanno sui diretti interessati. Problemi di cui lo Stato si occupa marginalmente e a macchia di leopardo, lasciando ad enti locali e Terzo settore un ruolo sostitutivo, laddove questi ci sono ed operano. Spostarsi da una città ad un’altra per curarsi non è un’opzione, spesso è una scelta tra la vita e la morte». Che fare?
«Abbiamo proposto di introdurre un reddito di emergenza sanitario perché non tutti possono usufruire del congedo biennale straordinario previsto dalla legge 104, soprattutto
Farmaci orfani, cosa sono e quanto costano al sistema sanitario nazionale

Lo scorso 13 dicembre è stato presentato il V Rapporto Annuale di Osservatorio Farmaci Orfani-OSSFOR - “Malattie Rare e Farmaci Orfani alla prova del Pnrr” - il primo centro studi e think-tank dedicato allo sviluppo delle policies per la governance e la sostenibilità nel settore delle malattie rare nato da un’iniziativa del Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità (C.R.E.A. Sanità) e della testata Osservatorio Malattie Rare (OMAR). Impossibile parlare di malattie, farmaci, e ancor di più di malattie rare senza rimanere aderenti alla realtà che ancora stiamo vivendo: l’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da Coronavirus. Emergenza che, pur rendendoci tutti “fragili”, ha inciso ancora di più su chi fragile lo era anche prima. «Anzi», spiega Francesco Macchia, co-fondatore e Ceo di RareLab, coordinatore di OSSFOR, «è presumibile che quello delle malattie rare sia stato uno degli ambiti maggiormente colpiti, sia perché è, di per sé, caratterizzato da problemi e ritardi nella diagnosi, sia perché in questo ambito sono vitali i controlli e l’assistenza domiciliare e sociale a pazienti che spesso sono disabili e non autosufficienti». Ma per questi pazienti ci sono terapie disponibili? «I farmaci orfani», dice Macchia, «vengono definiti tali quando, in assenza di specifici incentivi, non ci sono interessi commerciali a svilupparli e sono quindi previsti incentivi ad hoc. Un farmaco è orfano quando si configura come possibile terapia che va a curare una malattia rara con un'incidenza molto bassa sulla popolazione». Ad oggi per bassa prevalenza delle malattie rare si intende una prevalenza inferiore a cinque individui su diecimila. Nell’ambito delle malattie rare sono comprese anche le malattie ultra rare, caratterizzate, da una prevalenza inferiore a un individuo su cinquantamila e i tumori rari. Le malattie rare conosciute sono tra le 6mila e le 8mila. Ma solo per il 6% delle persone che ne è affetto esiste una cura. Il percorso di questa tipologia di farmaci inizia con la designazione di “orfano”. In Europa, la richiesta viene depositata all’European Medicines Agency (EMA) da uno “Sponsor”, spesso un’azienda farmaceutica, ma a volte anche da persone fisiche o associazioni di pazienti. L’assegnazione della qualifica spetta al Committee for Orphan Medicinal Products (COMP). La Commissione Europea adotta il parere definitivo sulla domanda di medicinale orfano entro 30 giorni dal ricevimento del parere del COMP.
I farmaci che ottengono la designazione sono inseriti nel Registro Comunitario dei farmaci orfani che consente all’azienda di avere un supporto nell’elaborazione dei protocolli di ricerca e una esclusività di mercato di 10 anni. In Italia i farmaci orfani hanno anche il vantaggio di non essere chiamati a pagare la quota di payback in caso di sfondamento del tetto della spesa ospedaliera. Ma chi sostiene il costo dei farmaci orfani? «Nel nostro Paese», continua Macchia, «i farmaci orfani, salvo rare eccezioni, sono completamente a carico del Sistema Sanitario Nazionale e la spesa comprensiva dell’acquisto da parte delle strutture sanitarie pubbliche e dell’erogazione in regime di assistenza convenzionata, è stata nell’anno 2020 di circa 1,3 miliardi di euro, rispetto agli 1,4 miliardi nel 2019, corrispondente al 6,0% della spesa farmaceutica a carico SSN. Il 2020 segna una quindi riduzione del 14,4% dei consumi e del 11,5% della spesa probabilmente come effetto dell’emergenza Covid in termini di eccesso di mortalità e discontinuità terapeutica».
Nel 5° Rapporto OSSFOR viene anche analizzata la spesa media sanitaria diretta per malato raro sostenuta nel 2020 dal servizio pubblico lombardo, comprendente farmaci, protesi e ausili, esami diagnostici e di laboratorio, visite, ricoveri ordinari e day hospital. Tale cifra risulta pari a 4.248,1 euro annui: partendo da questo dato si può stimare che complessivamente la spesa per malati rari sia pari all’1,7% della spesa sanitaria pubblica, un impatto quindi tutto sommato limitato anche se comunque superiore alla quota capitaria media di finanziamento. «Il 62,7% di questa spesa va effettivamente in farmaci orfani che quasi sempre rappresentano l’unica alternativa terapeutica per questi pazienti», continua il coordinatore di OSSFOR, «ma nel 2020 il 35,3% delle molecole orfane fattura meno di cinque milioni di euro e il 57,4% meno di dieci. All’altro estremo della distribuzione invece troviamo che superano i 50 milioni di euro il 10,3% delle molecole e solo il 4,4% arriva a 100 milioni». In Italia quindi sono pochissimi i farmaci orfani con fatturati importanti. Sempre al 2020 sono commercializzabili in Italia 97 farmaci orfani contro i 118 approvati da EMA». Un farmaco orfano non costa quindi nel complesso, ma ha spesso un alto costo per singolo paziente perché ad usufruirne sarà un numero molto limitato di persone. Come si risolve? «Sicuramente non c’è una soluzione tout-court, ma fino ad ora le previsioni di spese catastrofiche per questo tipo di farmaci sono state puntualmente smentite. Molto spesso grazie all’utilizzo di management entry agreement (MEA), ovvero degli accordi che l’Agenzia italiana del farmaco prende con le aziende farmaceutica per i quali AIFA si impegna solo successivamente a pagare le aziende se il farmaco prodotto risulta efficace. In caso contrario il costo viene sostenuto interamente o in parte dall’azienda farmaceutica».
Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: puntiamo sulle reti sociali

A cosa vogliamo che servano i 191,5 miliardi* del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza? Fondi che, se utilizzati bene, possono davvero rappresentare un punto di svolta per il Paese. Ma una cosa è certa: se non coinvolgiamo le reti sociali rischiamo di sprecare risorse.
In modo particolare la missione cinque e la missione sei del Next Generation Italia (nome proprio del Pnrr) sono dedicate rispettivamente agli interventi per l’inclusione e la coesione sociale e agli interventi per promuovere la salute. «È fondamentale che l’azione pubblica si avvalga del contributo del Terzo settore per la pianificazione in coprogettazione dei servizi», dice Valeria Fava, responsabile Settore Salute di Cittadinanzattiva. L’organizzazione ha promosso insieme ad ActionAid, Legambiente e Slow Food Italia l’osservatorio civico del Pnrr, a cui aderiscono circa trenta organizzazioni della società civile. L’osservatorio è stato nominato all'interno del Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale, istituito nell'ambito dell'attuazione del PNRR con funzioni consultive. «Il Terzo settore», aggiunge, «è un attore rilevante sia per la pianificazione sia per l’implementazione di politiche pubbliche». Alla Missione cinque infatti saranno complessivamente destinati 19,81 miliardi di euro, a questi si aggiungono 2,6 miliardi dal Fondo Complementare. La missione si esplicita in tre componenti: politiche per il lavoro (6,6 Mld); interventi speciali per la coesione territoriale (1,98 Mld) e infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo settore a cui sono destinati 11,17 miliardi di euro.
«In modo particolare la voce dedicata esplicitamente al Terzo settore», continua Fava, «è una componente che valorizza le iniziative volte al rafforzamento della fragilità». E infatti gli interventi riguardano l’attivazione sociale delle politiche sanitarie, urbanistiche, abitative, dei servizi per l’infanzia, per gli anziani, per i soggetti più vulnerabili così come quelle della formazione, del lavoro, del sostegno alle famiglie, della sicurezza, della multiculturalità, dell’equità tra i generi. Troviamo anche il sostegno alle persone vulnerabili e i percorsi di autonomia per le persone con disabilità. Le missione cinque e la missione sei sono quindi oggettivamente legate.
Il Pnrr destina 15,63 miliardi di euro agli interventi per promuovere la salute: 7 per la creazione di reti di prossimità, assistenza sanitaria territoriale e telemedicina e 8,63 miliardi da investire in innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale. In modo particolare 2 miliardi saranno dedicati alla costruzione delle Case di Comunità e della presa in carico delle persone. La Casa della Comunità diventerà infatti lo strumento attraverso cui coordinare tutti i servizi offerti, in particolare per i malati cronici.
Qui sarà presente il punto unico di accesso alle prestazioni sanitarie. La presenza degli assistenti sociali nelle Case della Comunità rafforzerà il ruolo dei servizi sociali territoriali e una loro maggiore integrazione con la componente sanitaria assistenziale. L’investimento prevede l’attivazione di 1.288 Case della Comunità entro la metà del 2026. 4 miliardi invece saranno investiti per sviluppare servizi di telemedicina e potenziare i servizi domiciliari. L’investimento mira ad aumentare il volume delle prestazioni rese in assistenza domiciliare fino a prendere in carico, entro la metà del 2026, il 10% della popolazione di età superiore ai 65 anni. Un miliardo sarà investito nell’attivazione degli Ospedali di Comunità, ovvero strutture sanitarie della rete territoriale a ricovero breve e destinate a pazienti che necessitano di interventi sanitari a media/bassa intensità clinica e per degenze di breve durata. Queste strutture contribuiranno ad una maggiore appropriatezza delle cure determinando una riduzione di accessi impropri ai servizi sanitari come ad esempio quelli al pronto soccorso. L’investimento si concretizzerà nella realizzazione di 381 Ospedali di Comunità, e l’orizzonte per il completamento della sua realizzazione è la metà del 2026.
La missione sei prevede anche un investimento dedicato all’aggiornamento tecnologico e digitale degli ospedali, che comprende anche l’adeguamento delle strutture alle vigenti norme in materia di costruzioni in area sismica e 1,2 miliardi per valorizzare e potenziare la ricerca biomedica del sistema sanitario nazionale e sviluppare competenze tecniche, digitali e manageriali del personale del sistema sanitario. «La nostra priorità», chiosa Fava, «è monitorare tutti i passaggi, affinché le risorse non vengano sprecate. Dobbiamo essere attenti alle misure che le Regioni prenderanno per dar seguito alle missioni. Analizzeremo le bozze normative e proporremo correttivi se dovesse essercene bisogno».
*Il totale complessivo arriva a 235,14 miliardi di euro aggiungendo alle risorse del PNRR anche quelle rese disponibili, sugli stessi ambiti, dal fondo complementare nazionale che vale 30,64 miliardi e da React-EU che vale 13 miliardi.
Dal Mondo Roche
Roche al 1° posto per la reputazione aziendale tra le Big Pharma

Cosa pensano le associazioni di pazienti delle case farmaceutiche? Come interagiscono con esse? A questa domanda ha risposto Patient View, un provider indipendente, che ha pubblicato la ricerca “The Corporate Reputation of Pharma in 2020 during the Covid-19 Pandemic ― the Perspective of Italian Patient Groups”.
Un’indagine che ha coinvolto, tra Novembre 2020 e Febbraio 2021, 25 aziende farmaceutiche 113 associazioni di pazienti che rappresentano un bacino di 56mila pazienti italiani. In linea generale la reputazione delle aziende farmaceutiche nel nostro Paese, dal punto di vista delle associazioni di pazienti, si conferma buona anche nel 2020. Roche si è posizionata, a livello globale, sia nel 2019 che nel 2020 al 1° posto per la reputazione aziendale su 14 aziende (considerate “Big Pharma”), seguita da Pfizer e Novo Nordisk, e al 2° posto su 48 imprese farmaceutiche. L’azienda, inoltre, si è posizionata al 1° posto in 10 dei 13 indicatori tra cui la patient-centricity, la trasparenza, l’integrità e al primo posto per la capacità di risposta durante i mesi più duri della pandemia.
Nonostante le sfide dovute alla situazione pandemica Roche è riuscita a mantenere la leadership reputazionale, dimostrando di essere capace di adattarsi al cambiamento e ascoltare gli interlocutori, in un’ottica di rispetto e fiducia reciproca, grazie anche alla capacità di evolversi e intraprendere nuove sfide.
Patient Safety Council, qui si promuove la cultura della sicurezza e della salute del paziente

I progetti di valore si costruiscono mettendosi in ascolto degli altri perché è dall’ascolto che si intercettano i bisogni. Da questo dialogo sempre aperto tra Roche e le associazioni di pazienti è nata la necessità di sviluppare e approfondire i temi legati alla farmacovigilanza.
Così a settembre del 2020 è stata promossa l’iniziativa del “Patient Safety Council”, che riunisce cinque diverse associazioni di pazienti: Aism Onlus, Amici Onlus, FedEmo, La Lampada di Aladino Onlus e Walce Onlus con l’obiettivo di promuovere la cultura della sicurezza e della salute del paziente e migliorare il patient engagement incentivando il dialogo tra medico e paziente e sensibilizzando il paziente a segnalare effetti indesiderati sospetti dopo l’assunzione di un farmaco.
«Lavorare assieme, aziende del farmaco e associazioni di persone con differenti patologie su un tema così rilevante e di assoluta attualità come la sicurezza dei farmaci, è un esercizio concreto di corresponsabilità e di innovazione nei processi e nei modelli», spiega Aism, associazione sclerosi multipla italiana. «Una partnership che dà ulteriore centralità al ruolo del paziente e rafforza la capacità del sistema di dialogo e confronto con le istituzioni ai diversi livelli».
Un primo importante risultato è stato raggiunto con la pubblicazione di un articolo scientifico “Patient Associations as key players in pharmacovigilance: results of an Italian survey from the Patient Safety Council” su PharmAdvances, la rivista ufficiale della Società Italiana di Farmacologia. L’articolo restituisce i risultati di una survey condotta dalle 5 associazioni presso i propri pazienti sul livello di conoscenza dei processi di farmacovigilanza e il loro dichiarato interesse a ricevere maggiori informazioni sui temi che riguardano la sicurezza delle cure. Nell’ambito della sicurezza del farmaco, dato il numero crescente e la complessità dei trattamenti in commercio, si sta confermando sempre di più l’importanza di un ruolo proattivo dei pazienti. Amici onlus, l’associazione nazionale per le malattie infiammatorie croniche dell'intestino, spiega: «L'esperienza del Patient Safety Council dimostra che è sempre più importante il rapporto tra associazionismo e aziende non solo in situazioni di emergenza come la pandemia, ma proprio per il valore aggiunto che il farmaco si può offrire. Gli esiti riferiti dal paziente (patient-reported outcomes, Pro) sono importanti perché forniscono il punto di vista del paziente su una malattia o su un trattamento che non può essere rilevato con una misurazione clinica, ma che può essere importante per i pazienti (e la loro aderenza al trattamento) tanto quanto una misurazione clinica. I Pro ci indicano che la strada da seguire per migliorare la qualità della vita e dell’assistenza del paziente è nel suo nell’engagement».
La loro voce infatti diventa fondamentale nei processi di farmacovigilanza, per trovare soluzioni di reciproco valore con le Autorità regolatorie, le Aziende Farmaceutiche e tutti gli attori chiave del Sistema Salute. «Un'iniziativa importante che porta la conoscenza al paziente. Finalmente si è creato un tavolo ricco di bisogni, aspettative e coinvolgimento, del tutto innovativo nell'ambito della farmacovigilanza, Grazie a questo percorso condiviso tra Azienda e Associazioni di pazienti si potrà dar vita a modelli di gestione e consapevolezza delle proprie patologie anche grazie ad una maggiore e migliore conoscenza della farmacovigilanza che a tutt'oggi manca», aggiunge FedEmo, la federazione delle associazioni emofilici.
La comprensione del profilo beneficio/rischio di un farmaco e una migliore reportistica degli effetti indesiderati, non può che partire dalla collaborazione coi pazienti. Il dialogo continuo tra medico e paziente su temi di sicurezza e tollerabilità delle cure permette al medico di identificare i pazienti che possono avere maggiori probabilità di sviluppare uno specifico effetto indesiderato. «Si parla sempre di più di Patient Engagement inteso come coinvolgimento attivo del paziente in tutto ciò che fa parte del suo percorso di cura, per fargli acquisire autonomia e proattività nella gestione della malattia», dicono da la Lampada di Aladino Onlus, associazione che supporta le persone che vivono l’esperienza del cancro, «ma spesso manca un’appropriata informazione che promuova questa crescita culturale. Ne è un esempio l’ambito della farmacovigilanza, dove raramente il paziente è a conoscenza del diritto di poter fare una segnalazione in autonomia delle reazioni avverse a seguito dell’assunzione di farmaci, vanificando il processo di valutazione tra rischi e benefici da parte degli Enti istituzionali competenti». Eppure un paziente consapevole dell’importanza del suo contributo rispetto alla farmacovigilanza è in grado di affrontare meglio la propria malattia, tollerare i potenziali rischi perché consapevole dei benefici attesi ed essere maggiormente aderente alla terapia. «Grazie a questa importante avventura vissuta dalla nostra associazione insieme al Patient Safety Council», chiosa Walce Onlus, che si occupa di informazione, educazione e supporto ai pazienti affetti da tumore del polmone e loro familiari, «riusciremo ad avvicinare i nostri pazienti alla farmacovigilanza rendendoli sempre più protagonisti e consapevoli nel loro percorso di cura».
La voce delle Associazioni
La migrazione sanitaria in oncologia ai tempi del Covid

La pandemia ha messo in evidenza molti limiti del Sistema Sanitario Nazionale ma ha anche dimostrato che per alcune questioni, come la migrazione sanitaria, si possono (e devono) trovare delle soluzioni. La migrazione sanitaria in oncologia conta numeri importanti in Italia: ogni anno oltre 67mila ricoveri ospedalieri per tumore vengono effettuati in mobilità passiva, ovvero con una migrazione dei pazienti dalla loro città di residenza abituale. Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Lazio sono le Regioni dalle quali i pazienti con tumore si spostano maggiormente. Il Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”, coordinato da Annamaria Mancuso, presidente di Salute Donna Onlus, con la collaborazione di 41 Associazioni di pazienti oncologici e onco-ematologici, sin dalla sua nascita nel 2014 è impegnato a supporto di una migliore presa in carico dei pazienti con un’attenzione particolare al tema della migrazione sanitaria, attraverso un monitoraggio sul territorio e azioni di sensibilizzazione verso le istituzioni affinché ci sia uno sforzo maggiore verso la “migrazione evitabile”. Nell’ambito di questo impegno il 16 dicembre, in occasione del Forum Istituzionale annuale del progetto, sono stati presentati i risultati di un’indagine qualitativa che ha coinvolto associazioni di pazienti, specialisti e assessori alla sanità al fine di evidenziare le pratiche virtuose messe in campo durante la pandemia per garantire la continuità assistenziale e che potrebbero essere adottate in maniera strutturale per attenuare il fenomeno della migrazione sanitaria e valorizzare le eccellenze regionali.
Il messaggio chiave che emerge dall’indagine è che contenere la mobilità sanitaria si può e requisito imprescindibile a monte è l’implementazione delle reti. Tra le azioni chiave segnalate: l’attivazione di reti multidisciplinari da parte di professionisti che ha portato all’attenzione dei pazienti la possibilità di ricevere le cure adeguate anche nella propria Regione; la telemedicina e il teleconsulto che hanno consentito ai pazienti di continuare le cure a casa propria e di ricevere quando occorreva un’opinione di un medico; la consegna di farmaci per le terapie orali al domicilio o nei Centri ospedalieri più vicini che ha permesso la continuità terapeutica ai pazienti con trattamenti cronici orali; il supporto delle Associazioni di pazienti che anche durante la pandemia hanno dimostrato il loro ruolo preziosissimo di orientamento e supporto per pazienti e familiari. «La migrazione sanitaria in oncologia è un tema che il nostro Gruppo ha sempre tenuto in grande considerazione: basti pensare che il Manifesto per i diritti dei pazienti oncologici con il quale, di fatto, nel 2014 è nato il progetto “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere” era proprio incentrato sulle difformità tra una Regione e l’altra nell’assistenza e nella cura dei pazienti oncologici e sull’aumento della mobilità passiva di questi pazienti», dichiara Annamaria Mancuso, Coordinatrice del Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere” e presidente di Salute Donna onlus. «I cosiddetti “viaggi della speranza” portano i pazienti con tumore e le loro famiglie a spostarsi per ricevere l’assistenza e il trattamento migliori e hanno conseguenze importanti sulla sfera economico-sociale dei nuclei familiari, costringendo intere famiglie a spostamenti frequenti che causano non solo un notevole dispendio di risorse economiche ma hanno anche un importante impatto dal punto di vista dello stress psicologico e fisico, per i pazienti e per i loro caregiver. Con la pandemia abbiamo visto che sono state messe in campo pratiche virtuose che hanno favorito l’oncologia di prossimità. È quindi possibile parlare di migrazione sanitaria “evitabile” e noi come Gruppo ci stiamo impegnando affinché questo tema non sia più rimandato».
Sclerosi multipla, la qualità della vita dei pazienti passa per i Pdta

In Italia ci sono 130mila persone con Sclerosi Multipla, una malattia neurodegenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale. Una malattia complessa e imprevedibile, una patologia autoimmune. Ma grazie ai trattamenti e ai progressi della ricerca, le persone con sclerosi multipla possono mantenere una buona qualità di vita con un’aspettativa non distante da chi non riceve questa diagnosi. Tra questi l’iniziativa promossa da Aism, associazione italiana sclerosi multipla - “Il Pdtacome strumento di umanizzazione e personalizzazione dei percorsi di cura e assistenziali presso la Rete della SM” - un progetto che consiste nell’implementazione di Percorsi Diagnostici Terapeutici e Assistenziali (Pdta) capaci di garantire reale continuità alle cure sanitarie e assistenziali attraverso tutte le fasi della malattia, mantenendo sempre al centro le esigenze delle persone con SM e delle loro famiglie.
Il progetto è partito nel 2020. «Volevamo che i PDTA regionali venissero effettivamente applicati e implementati, cosa che anche nei territori che li prevedono , succede in modo ancora estremamente disomogeneo», spiega Paolo Bandiera, direttore Affari Generali e relazioni istituzionali Aism. «Un Pdta per funzionare deve essere infatti adattato alle effettive caratteristiche della rete di servizi, alle aziende sanitarie e ai soggetti che li erogano sul territorio, secondo modalità che variano moltissimo anche all’interno della stessa Regione».
L’iniziativa è divisa in tre fasi: la raccolta dei dati che servono a fare il punto su come vengano erogate oggi le cure, un questionario è stato somministrato ai circa 240 Centri Clinici per la SM presenti sul territorio italiano; la messa a punto della collaborazione con il Centro Clinico per la SM dell’IRCSS San Martino di Genova. «Si tratta di un’attività fondamentale», dice Bandiera, «perché il Centro di Genova, al quale Aismè legata da un lungo rapporto di proficua collaborazione, sarà il contesto dove verrà elaborato un modello di PDTA che, con gli aggiustamenti, adattamenti, integrazioni e personalizzazioni legate ai singoli contesti regionali, aziendali e territoriali, possa costituire la base su cui costruire altri PDTA calati nel funzionamento delle singole realtà organizzative». La terza fase infine prevede la replicazione del modello a partire da altri Centri per la SM, che corrispondono ad altrettanti sistemi territoriali di presa in carico, in altrettante regioni italiane. La sperimentazione dei Pdta nei Centri consentirà quindi di avviare un processo diffuso di trasformazione del modello di presa in carico, e sarà un’opportunità per Aism e l’insieme degli stakeholder coinvolti nel progetto, incluse le stesse Istituzioni, non solo per promuovere il miglioramento delle cure sul territorio, ma anche per osservare in tempo reale e da un punto di vista privilegiato, quali fattori facilitino e quali ostacolino la disseminazione di un modello innovativo quale il Pdta della SM in contesti territoriali diversi.
«Avviate le prime due fasi», conclude Bandiera, «siamo in una fase di messa a punto del Pdta sperimentale, che quando verrà adattato e implementato in altri 20 Centri e reti territoriali potrà avere un impatto diretto sulla vita di circa 15/20mila persone con SM.
L’obiettivo però è che la disseminazione dei Pdta aziendali e territoriali si espanda oltre i Centri direttamente coinvolti nel progetto, e sicuramente Aism proseguirà il suo impegno in questo senso affinché sempre più persone con SM ricevano cure effettivamente integrate e centrate sui loro bisogni».