Newsletter #4
I malati rari non possono più aspettare: le Regioni devono firmare subito il Decreto Tariffe affinché i pazienti possano accedere, indipendentemente dalla Regione di residenza, ad ausili sempre più performanti e a visite specialistiche ambulatoriali in caso di necessità. Continuiamo ad investire nelle ERN, European Reference Network. Ad oggi ne esistono 24 e consentono di condividere le conoscenze e ottimizzare le cure erogate ai pazienti, superando i confini del proprio Paese. Le malattie rare sono difficili da spiegare, soprattutto per i più piccoli. Così l’associazione Famiglie Sma ha lanciato un contest a fumetti per spiegare, con un linguaggio semplice, concetti complessi come l’inclusione sociale di persone con patologia neuromuscolare. E ancora Emofilia ed Epatocarcinoma, le associazioni di pazienti continuano a fare la differenza quando si parla di qualità della vita di chi è malato. E per loro, a giugno, è previsto l’evento Patient Associations Talks Hub, nato per supportare la proattività delle Associazioni. Intanto dobbiamo pensare oggi a quello che sarà domani: le patologie neurologiche stanno aumentando, per far fronte a questa sfida futura la Società Italiana di Neurologia ha realizzato insieme a Roche il rapporto "Next - Neuroscience Exploring Tomorrow 2021", perché una corretta assistenza passa dalla riorganizzazione del sistema.
In primo Piano
Le associazioni di pazienti: “Aggiornate subito i Lea”
La bozza del Decreto Tariffe è ferma da diversi mesi alla firma della Conferenza delle Regioni, ma sono ormai 5 anni che le persone con malattie rare e croniche ne attendono la piena attuazione.

Calze elastiche, respiratori, protesi, sedie a rotelle. Non è solo l’elenco di ausili medici, ma quello di strumenti che, per i due milioni di malati rari in Italia - nel 70% dei casi si tratta di pazienti in età pediatrica - sono salvavita o comunque rappresentano la possibilità di una migliore qualità della vita nonostante le malattie. E allora perché i Livelli Essenziali di Assistenza, Lea, ovvero tutte quelle prestazioni e servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire ai cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione, non vengono aggiornati per permettere a tutti i malati, di tutte le regioni, di poter accedere ad ausili sempre più performanti e a visite specialistiche ambulatoriali in caso di necessità?
È questa la richiesta che oltre 130 associazioni di malati cronici e rari – aderenti all’Alleanza Malattie Rare coordinata dall’Osservatorio Malattie Rare e al Coordinamento Nazionale Malati cronici e rari (Cnamc) di Cittadinanzattiva – fanno alle Regioni. Insieme hanno mandato una lettera a vari esponenti a tutti i livelli istituzionali con una richiesta precisa: approvare la bozza del Decreto Tariffe ferma da diversi mesi alla firma della Conferenza delle Regioni.
«Cinque anni fa», si legge nella lettera, «veniva pubblicato il dpcm 12 gennaio 2017 che ancora oggi chiamiamo “Nuovi Lea”, con il quale si definisce l’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza. A partire da quel momento, e tuttora, le persone con malattie rare e croniche ne attendono la piena attuazione attraverso la definizione delle tariffe e delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e di assistenza protesica, da inserire all’interno di un nuovo Nomenclatore tariffario, con un apposito decreto. Secondo il Decreto istitutivo dei Nuovi Lea, questo doveva essere fatto entro il 28 febbraio 2018, la giornata delle malattie rare di 4 anni fa». Ma siamo ancora in una fase di stallo. «Di fatto», dice Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice dell’Osservatorio Malattie Rare, «i nuovi Lea, che risalgono al 2017, quando era ministra della salute Beatrice Lorenzin, non sono mai entrati in vigore perché ancora manca il decreto sulle tariffe della specialistica ambulatoriale, che contiene anche il nuovo nomenclatore degli ausili e delle protesi. È un paradosso che le Regioni non vogliano firmare, visto che questo documento è stato lungamente preparato dal ministero della Salute insieme a loro. Senza questo atto tutti quelli conseguenti sono bloccati: non potranno esserci nemmeno nuovi aggiornamenti, che pure già sono stati valutati e che sarebbero necessari, perché non si può aggiornare qualcosa che non è ancora nemmeno in vigore. A rimetterci in questo assurdo tira e molla sono sempre i pazienti».
Ricordiamo che dal decreto tariffe dipendono sia le visite specialistiche ambulatoriali sia gli ausili e le protesi che vengono fornite dall’Asl di riferimento e poi rimborsate dal sistema sanitario nazionale, ora che sono passati 5 anni le associazioni si chiedono perché si sia arenato così a lungo. «C’è stata un po’ di lentezza istituzionale. Ma alla fine negli ultimi due anni il ministero della Salute ha lavorato insieme alle Regioni per realizzare una bozza. Lo scorso giugno il decreto era pronto e quando a settembre 2021 doveva essere firmato le Regioni si sono tirate indietro». La motivazione non è del tutto priva di senso, ma in ogni caso, superabile: «Stando alle Regioni», continua la direttrice dell’Osservatorio Malattie Rare, «quel decreto mai attuato era già vecchio: in 5 anni la ricerca tecnologica e scientifica è andata avanti, l’elenco della malattie rare si è allungato, i costi dei materiali per gli ausili - e quindi gli stessi ausili - sono aumentati. Di merito le Regioni avrebbero anche ragione. Però la richiesta delle associazioni di pazienti è altrettanto chiara, lecita e accettabile: intanto approviamo questo decreto e poi, appena entrato in vigore, richiederemo un aggiornamento che garantisca alle Regioni più fondi».
La seconda richiesta delle associazioni, una volta approvato il decreto tariffe, è la revisione periodica e certa dello stesso come prevista da legge: «Non solo dei Livelli Essenziali di Assistenza ma dei Decreti ad essi connessi per evitare futuri ritardi e perdite di tempo che incidono irrimediabilmente sulla vita delle persone affette da malattie croniche e rare, dei caregiver e dei familiari». Ora però davvero non si può più aspettare. «L’attesa di un Decreto relativo alle tariffe delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e di assistenza protesica ha generato e favorito evidenti disparità tra regioni, in ragione delle differenti condizioni economiche. Alcune di esse hanno reso esecutivi, con propri provvedimenti e investimenti, i cosiddetti extra Lea, prestazioni inserite nell’aggiornamento del 2017 che non erano presenti in precedenza, con l’obiettivo di consentire le prescrizioni necessarie da parte dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta ed al fine di agevolare gli assistiti affetti da condizioni croniche. Altre regioni, a causa della diversa disponibilità di risorse e dei Piani di rientro, non sono riuscite ad assicurare le prestazioni riconosciute essenziali per garantire la salute stessa degli individui e la salute collettiva e inoltre fin quando il Nomenclatore tariffario non sarà approvato e operativo, non sarà possibile fare ulteriori passi in avanti su molti altri fronti, nonostante vi siano tutti i presupposti. Tra i provvedimenti che trovano un blocco in questa mancata attuazione dei “Nuovi Lea” c’è il Decreto di aggiornamento del panel dello screening neonatale, fermo al 2016, l'inserimento nella lista di malattie esenti di malattie rare e croniche precedentemente non incluse e anche il riconoscimento al diritto alla Procreazione medicalmente assistita per alcune persone affette da patologie genetiche trasmissibili».
Ern, cosa sono e perché in medicina fanno la differenza
Si chiamano Ern, European Reference Network, e sono le 24 preziosissime Reti di riferimento europee dedicate a differenti gruppi di malattie rare e complesse. «Le Reti», spiega il professor Bruno Dallapiccola, direttore scientifico del Bambino Gesù, «consentono di condividere le conoscenze e ottimizzare le cure erogate ai pazienti, superando i confini del proprio Paese»

Si chiamano Ern, European Reference Network, e sono le 24 preziosissime Reti di riferimento europee dedicate a differenti gruppi di malattie rare e complesse. L’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” di Roma è uno dei centri di riferimento ed è inserito in 20 reti. Tra gli istituti pediatrici di tutta l’Europa, la struttura ospedaliera della Santa Sede è quella che partecipa al maggior numero di reti. In Europa partecipano oltre 300 ospedali in 26 nazioni.
«Il progetto delle Reti di riferimento europee», spiega il professor Bruno Dallapiccola, direttore scientifico del Bambino Gesù, «è stato avviato nel 2011 per dare vita a un network di centri altamente specializzati nella ricerca e nel trattamento delle malattie rare, e favorire la presa in carico di pazienti che richiedono trattamenti altamente specialistici. Le Reti consentono di condividere le conoscenze e ottimizzare le cure erogate ai pazienti, superando i confini del proprio Paese. Il principio di base di questo modello di assistenza sanitaria “virtuale” è quello di far viaggiare le competenze e non il malato, garantendo l’accesso a cure e assistenza altamente specializzate, con pari opportunità per tutti».
Le Ern sono suddivise per gruppi di patologie o condizioni. «Le Reti», sottolinea il professor Dallapiccola, «permettono lo scambio di informazioni e facilitano la diagnosi di condizioni rare e complesse, attraverso discussioni virtuali dei casi su una piattaforma informatica ad accesso protetto. L’Italia ha già una struttura organizzativa straordinaria, con oltre 200 centri di eccellenza, dunque può avere un beneficio minore rispetto ai Paesi dell’Est europeo che hanno una carenza di risorse, però è importante stare all’interno di queste Reti perché si condividono i casi e i registri dei pazienti, e si partecipa alla sperimentazione dei nuovi farmaci. Oggi ci sono farmaci efficaci mirati solo per il 5% delle malattie rare, anche se poi il trattamento è valido per il 70% di esse. Nate inizialmente per dare una migliore assistenza ai malati, le Reti hanno dato un grande impulso alla ricerca e permesso di scoprire nuove malattie rare e rarissime. Fondamentale è stata anche la condivisione di protocolli e linee guida internazionali».
Ogni specializzazione e sottospecializzazione, sia pediatrica sia dell’adulto, ha al suo interno centinaia di malattie rare. Un recente studio americano ha messo al confronto cinque database a livello mondiale, dal quale emergono oltre diecimila patologie rare, di cui l’80% è di origine genetica. L’85% di queste malattie sono ultra-rare, a volte riguardano meno di un caso per milione di individui. Il tempo medio per arrivare a una diagnosi è di 4 anni e 8 mesi. Anche le malattie molto rare possono essere affrontate in modo multidisciplinare e collaborativo da professionisti che seguono gli ambiti specialistici nei vari Paesi europei, facilitandone sia la diagnosi che il trattamento.
«Il processo di selezione e la partecipazione alle Ern», precisa Dallapiccola, «hanno avuto importanti ricadute per l’Ospedale, perché hanno permesso di sistematizzare i percorsi di cura, le competenze e gli indicatori clinici delle patologie oggetto delle Reti. Inoltre, la partecipazione alle reti Ern ha influenzato anche le infrastrutture ospedaliere: la ristrutturazione della sede di via Baldelli a Roma, nel 2019, ha permesso di dedicare spazi ai circa 13mila pazienti affetti da malattie pediatriche rare seguiti ambulatorialmente ogni anno al Bambino Gesù. I progressi degli ultimi anni e le prospettive della ricerca, soprattutto nello studio del genoma, stanno dando entusiasmo ai medici e speranza alle famiglie. Oggi il 65-70% dei pazienti che arriva senza una diagnosi, viene inquadrato con l’ausilio dell’analisi genomica».
Le Ern alle quali partecipa l’ospedale Bambino Gesù sono: Bond (dedicata ai disturbi ossei), Euroblood (malattie ematologiche), Ernica (anomalie congenite ed ereditarie degli apparati digerente e gastrointestinale), Ern Rare-Liver (malattie epatiche), Ern Genturis (sindromi da rischio di tumore ereditario), Guard Heart (malattie cardiache rare), Eye (malattie rare dell’occhio), Metabern (disordini metabolici ereditari rari), Rita (malattie autoinfiammatorie, autoimmuni e immunodeficienze rare), Ithaca (malformazioni rare e anomalie dello sviluppo), Vascern (malattie vascolari multi-sistemiche rare), Epicare (epilessie rare e complesse), Rnd (malattie neurologiche rare), Euro-Nmd (malattie neuromuscolari rare), Paed Can (tumori pediatrici rari), Ern Lung (malattie polmonari rare), Erknet (malattie renali rare), Ern Skin (malattie rare della pelle), Eurogen (malattie urogenitali rare), Ern Transplant Child (trapianti pediatrici).
Le Avventure della SMAgliante Ada, il fumetto che racconta la Sma
Al via il secondo contest che affronta il tema dell’inclusione sociale e scolastica dei bimbi con disabilità attraverso lo strumento del fumetto. Il concorso, per gli scolari degli ultimi due anni della primaria e di prima media, nasce dalla collaborazione tra Famiglie SMA, i Centri Clinici Nemo, e Roche Italia per spiegare concetti complessi come l’inclusione sociale di persone con patologia neuromuscolare.

Ada, che frequenta la scuola secondaria di primo grado, è una travolgente e simpatica cagnolina che sfreccia per la città con la sua carrozzina elettrica rosso fuoco. Si muove su una sedia a rotelle perché ha la Sma, l’atrofia muscolare spinale, una malattia genetica rara. È lei la protagonista de “Le Avventure della SMAgliante ADA”, una collana di volumi a fumetti, dove attraverso la narrazione delle sue avventure quotidiane, la relazione con i suoi compagni di scuola, le dinamiche familiari e scolastiche che emergono, viene affrontato il tema dell’inclusione sociale e scolastica dei bimbi con disabilità motoria. I volumi nascono dal progetto educativo intitolato “La SMAgliante Ada”, pensato e sviluppato da Famiglie SMA, i Centri Clinici Nemo, e Roche Italia. Ada rappresenta simbolicamente ciascun bambino affetto da Sma (in Italia uno su 6mila nati vivi: ogni anno, nel nostro Paese, nascono dai 40 ai 50 bambini con la Sma). L’atrofia muscolare spinale è la prima causa di morte infantile, se non viene trattata in tempo. La malattia porta progressivamente alla perdita dei neuroni che trasportano i segnali dal sistema nervoso centrale ai muscoli, controllandone il movimento. Colpisce soprattutto in età pediatrica e rende difficili i comuni gesti quotidiani di un bambino, come gattonare, sedersi, stare in piedi, controllare il collo e la testa. Nei casi più gravi diventa quasi impossibile deglutire e respirare. Abbiamo chiesto ad Anita Pallara, presidente di Famiglie Sma, l’associazione è nata nel 2001 da famiglie e persone che affrontano nella loro quotidianità l’atrofia muscolare spinale - com’è nato il progetto e perché si è scelto di utilizzare il linguaggio del fumetto.
«Attraversare una strada ad esempio», spiega, «talvolta è complicato per tutti, ma per noi è molto più impegnativo e rischioso». Sensibilizzare i bambini fin da subito sul tema dell’inclusione è fondamentale. Quella che stanno portando, l’associazione Famiglie Sma e i Centri Clinici NeMO con Roche Italia è un’iniziativa importante proprio perché si rivolge ai minori. «Il fumetto infatti», continua Pallara, «è uno strumento che consente ai bambini di comprendere facilmente quello che vogliamo comunicare. Nella prima edizione del contest i bambini che hanno partecipato si sono identificati benissimo nel personaggio. Si sono ritrovati insieme, confrontati e persino divertiti. Una bella risposta, davvero. Ecco perché quest’anno abbiamo deciso di ripetere l’esperienza».
La voce alle associazioni di Pazienti
Il diritto all’oblio oncologico per chi è guarito dal tumore
Oltre 900mila persone, oggi, in Italia, sono guarite da un tumore e si possono trovare a vivere difficoltà nell’accesso ad alcuni servizi, come la richiesta di mutui e prestiti, la stipulazione di assicurazioni e l’adozione di figli. La Fondazione AIOM ha lanciato la prima campagna nazionale di raccolta firme a favore del diritto all’oblio oncologico. Già 50mila persone l’hanno sottoscritta. Adesso l’obiettivo è arrivare a 100mila

“Avevo un neo maligno che mi è stato asportato senza gravi conseguenze. Ma quando ho chiesto un mutuo la mia pratica è stata rifiutata”. E ancora “Vent’anni fa ho avuto un tumore al seno. Dopo cinque anni sono guarita. Sognavo di aprire una scuola di ballo. Ma accendere un mutuo a lungo termine per me è impossibile”. Queste sono solo alcune delle centinaia di testimonianze di ex pazienti oncologici. Persone che non sono più malate, cittadini e cittadine come altri. Un paziente oncologico viene considerato “guarito” quando raggiunge la stessa attesa di vita della popolazione generale. Le tempistiche variano in relazione alle diverse neoplasie. Meno di 5 anni per il cancro della tiroide, meno di 10 anni per quello del colon o il melanoma. Oltre 15 anni per i tumori della vescica e del rene, linfomi non-Hodgkin, mielomi e leucemie, soprattutto per le varianti croniche. Intorno ai 20 anni per alcuni tumori frequenti, come quelli della mammella e della prostata, perché il rischio che la malattia si ripresenti, sebbene esiguo, si mantiene molto a lungo.
In Italia abbiamo bisogno di una legge sull’oblio oncologico per tutelare gli ex malati. Ma a che punto siamo? Un percorso è iniziato ma bisogna accelerare i tempi. Lo scorso 29 marzo, dopo confronti con le associazioni scientifiche e di pazienti, Paola Boldrini, vice presidente della Commissione Sanità in Senato, ha illustrato il disegno di legge sul diritto all’oblio oncologico. Il testo prevede che chi non ha recidive o ricadute della malattia da 10 anni, cinque anni se la patologia è insorta prima del ventunesimo anno di età, non possa più essere considerato malato. «Partiamo da una questione culturale fondamentale», dice Elisabetta Iannelli, segretario generale F.A.V.O., Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia, «oggi la parola tumore, la parola cancro, non è più sinonimo di morte. La malattia in molti casi è curabile, e non solo si può curare, ma in molti casi si può anche guarire. Ma a questa guarigione medica dovrebbe corrispondere una guarigione sociale, un ritorno alla vita in tutte le sue sfaccettature: chi ha avuto il cancro non può rimanere indietro». Non rimanere indietro significa appunto, tra le altre cose, poter chiedere liberamente un mutuo senza essere vincolati da un’assicurazione sulla vita, significa poter adottare un bambino, non avere problemi in ambito lavorativo. «Vanno rimossi tutti gli ostacoli che impediscono un ritorno alla vita», continua Iannelli. «Se ne discute ormai da diversi anni di diritto all’oblio, nel 9° Rapporto dell'Osservatorio F.A.V.O. sulla condizione assistenziale del malati oncologici, presentato in Senato nel 2017 (Aspetti sociali della malattia oncologica: per un ex malato di cancro è possibile accedere alle assicurazioni sulla vita? Ma a quali condizioni? https://osservatorio.favo.it/wp-content/uploads/2020/03/R09.Cap_.07.pdf ), avevamo approfondito il tema relativo alle difficoltà che incontrano gli ex malati nello stipulare polizze assicurative. Perché è importante arrivare alla legge? Perché la malattia non può continuare a condizionare la vita delle persone anche dopo la guarigione. Certo, molti passi avanti sono stati fatti, c'è una più diffusa consapevolezza che di cancro si può guarire, ma c'è ancora molta strada da fare per superare ingiustificate quanto intollerabili forme di discriminazione verso gli ex malati oncologici».
Francia, Lussemburgo, Olanda, Belgio e Portogallo hanno già emanato norme che regolano il diritto all’oblio oncologico e che riconoscono agli ex pazienti il diritto a non dover dichiarare informazioni sulla propria malattia. E in Italia se qualcosa si sta muovendo lo si deve, come spesso accade quando parliamo di malattie, alle associazioni di pazienti. Anche le F.A.V.O. è tra i sostenitori della prima campagna italiana per il riconoscimento del diritto all’oblio oncologico promossa da Fondazione AIOM, Associazione Italiana di Oncologia Medica. «Siamo partiti lo scorso gennaio e abbiamo già raggiunto 50mila firme. Non ci aspettavamo questa risposta», dice la professoressa Adriana Bonifacino, presidente di IncontroDonna Onlus, l’associazione che sta ricoprendo il biennio di vicepresidenza della Fondazione AIOM. «Il diritto all’oblio oncologico non riguarda solo il paziente, ma è davvero una battaglia di civiltà». Oggi in Italia sono 3 milioni e mezzo i pazienti oncologici e oltre 900mila persone sono guarite da un tumore e si possono trovare a vivere difficoltà nell’accesso ad alcuni servizi della vita quotidiana. Per questa ragione Fondazione AIOM ha realizzato la campagna di comunicazione “Io non sono il mio tumore” con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica e le Istituzioni, nella speranza di raggiungere al più presto gli altri Paesi virtuosi. «La parola tumore viene ancora associata alla fine della vita, è questa è un’etichetta, uno stigma da combattere. L’obiettivo che ci siamo dati è il raggiungimento di 100mila firme, e vista la risposta degli stakeholder e dell’opinione pubblica possiamo dire che ci sono tutti i presupposti per riuscirci».
Ma c’è già anche una visione per il futuro, perché i diritti conquistati sono i diritti di e per tutti: «Le stesse possibilità e le stesse cose che chiediamo vengano tutelate con il diritto all’oblio oncologico, le chiederemo anche per i malati cronici. Abbiamo iniziato una trasformazione culturale e la porteremo avanti. Prima era difficile parlare di tumore, poi è stato difficile parlare di tumore metastatico. La parola “oncologica” è legata a qualcosa che si tende a nascondere, e non deve più essere così».
É importante che l’Italia si adegui perché il Piano europeo di lotta contro il cancro mira non solo a garantire che i pazienti oncologici sopravvivano alla malattia, ma che vivano una vita lunga e soddisfacente, senza discriminazioni e ostacoli iniqui. A tal proposito, la Mission on Cancer, promossa e finanziata dalla Commissione Europea, prevede di salvare entro il 2030 tre milioni di persone, assicurando una vita più lunga e migliore, attraverso 3 pilastri: prevenire tutto il prevenibile, ottimizzare la diagnostica e il trattamento e sostenere la qualità della vita. Il ritorno a una vita normale, produttiva e “di qualità” può essere assicurato solo da una tempestiva riabilitazione oncologica, conditio sine qua non per un pieno recupero fisico, nutrizionale, cognitivo, psicologico e ovviamente e non da ultimo anche sociale.
Per aderire alla campagna di raccolta firme qui dirittoallobliotumori.org/cosa-fare/raccolta-firme/
Emofilia, i pazienti hanno bisogno di un sostegno multidisciplinare
I pazienti in Italia sono 10.554. per loro si va verso la terapia genica, molto più evoluta, che però è ancora in una fase di sperimentazione. «I nostri pazienti hanno bisogno di un sostegno multidisciplinare, non soltanto dell’ematologo», dice Luigi Ambroso, vicepresidente della Federazione delle Associazioni Emofilici. «Dobbiamo ritornare la sanità di prossimità territoriale»

La Giornata mondiale dell’emofilia, celebrata l’11 aprile, ha riportato all’attenzione generale gli aspetti e le criticità di questa patologia. L’evento principale dedicato alla giornata si è tenuto a Roma, alla presenza del viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, e di altri parlamentari della 12a Commissione sanità. «Sulla base di quanto dichiarato dal viceministro», sottolinea il vicepresidente di Fedemo (Federazione delle Associazioni Emofilici), Luigi Ambroso, «è andata bene. Il tema della Giornata nazionale si “agganciava” al recente Testo Unico sulle Malattie rare, con l’intento del legislatore di migliorare il servizio per i malati “rari”.
L’emofilia è una malattia rara, ma anche cronica ed è una di quelle ricomprese tra le malattie emorragiche congenite (MEC), che in Italia contano 10.554 pazienti (dati Istituto Superiore di Sanità), dunque questa occasione è servita a fare il focus sulle criticità del momento. Il Testo Unico sulle malattie rare, a nostro avviso, non deve fare di tutta l’erba un fascio, in quanto ogni malattia ha le sue specificità. Negli ultimi anni, abbiamo visto crescere la rete dei Centri di emofilia (54 in tutto) e svilupparsi numerose professionalità di rilievo. Al viceministro Sileri abbiamo chiesto di accogliere le istanze delle varie Federazioni e Associazioni, che rappresentano i bisogni dei pazienti, affinché non vada disperso quanto fin qui costruito e partendo da questo, migliorarlo, salvaguardando le professionalità che ci sono. Ci ha garantito che, nei decreti attuativi, si terrà conto delle proposte che perverranno dai pazienti e dal mondo scientifico e che sarà creato un tavolo a cui siederanno tutti i portatori di interesse e naturalmente il Ministero, in modo di arrivare a dei provvedimenti che tengano presente le varie specificità, delle singole patologie». L’emofilia è una malattia rara, causata da un deficit di alcune proteine della coagulazione del sangue. Chi ne è affetto, ha una maggior tendenza alle emorragie spontanee o post-traumatiche. Colpisce un soggetto ogni 10mila, prevalentemente i maschi, ed è molto spesso ereditaria, ma esistono casi di mutazioni spontanee, pur in assenza di familiarità. L’emofilia di tipo A è dovuta alla carenza del fattore VIII, ed è di gran lunga la più diffusa, mentre quella di tipo B mostra una carenza del fattore IX. Ci sono tre livelli di gravità: grave (i casi più diffusi), moderata e lieve. La gravità viene stabilità in funzione del fattore mancante. Come si diagnostica? «Con le metodologie moderne è semplice, ma bisogna cercarla», precisa Ambroso. «Non è un esame di routine: dopo il prelievo di sangue, bisogna misurare i fattori VIII e IX. Se siamo intorno al 5%, siamo nella gravità lieve. A mano a mano che la percentuale scende, aumenta la gravità. Un segno di allarme scatta quando, nei bambini, si notano sul corpo ematomi in quantità superiori alla norma, magari solo perché è stato preso in braccio». La ricerca, fortunatamente, va avanti. «Negli anni Settanta», prosegue Ambroso, «è stato individuato il primo farmaco dedicato all’emofilia, un concentrato dei fattori mancanti che ha dato sollievo ai pazienti. Successivamente, la ricerca ha compiuto grandi passi avanti. Da qualche anno, ai farmaci tradizionali che si somministrano per endovena, se ne è aggiunto uno che si somministra sottocute, con una piccola siringa come quella usata dai diabetici. Adesso si va verso la terapia genica, molto più evoluta, che però è ancora in una fase di sperimentazione. Le terapie attuali hanno un’emivita (il tempo necessario affinché la concentrazione del farmaco nel sangue si riduca alla metà del valore iniziale) prolungata: siamo passati da uno a cinque giorni. Questo è rilevante in generale ma soprattutto per l’impatto psicologico, e in particolare per i bambini, nei quali non è facile individuare la vena adatta. E non gradiscono la puntura. Farne una ogni cinque giorni, cambia la qualità della vita».
Al momento, in Italia i casi accertati di emofilia sono circa cinquemila: 4.109 di tipo A e 882 di tipo B. La malattia è omogeneamente diffusa in tutto il Paese. La qualità della vita dei pazienti, con le terapie attuali, in generale è decisamente migliorata. «La popolazione», spiega il vicepresidente di Fedemo, «si divide in due parti ben distinte: da una parte le persone più anziane, nelle quali la patologia ha lasciato segni più importanti ma che hanno comunque una vita buona; dall’altra i giovani, cioè coloro che sono nati quando c’era già il trattamento farmacologico. Per questi, la vita è sovrapponibile a quella di un non emofiliaco. Se pensiamo che un tempo l’aspettativa di vita era intorno ai 50 anni, è facile capire che sono stati compiuti enormi passi avanti».
Quanto sono importanti le Associazioni di pazienti per questa malattia? «Sono state importantissime nel passato, proprio perché non c’erano le cure di oggi», è il commento di Ambroso. «La collaborazione con i vari reparti ospedalieri è stata fondamentale. Ma sono importanti anche oggi, pur con i progressi compiuti, perché consentono di raccogliere le istanze dei pazienti, tenere alta la guardia e individuare le criticità, che poi segnaliamo alle istituzioni ai vari livelli per avere una presa in carico sempre più attenta alle necessità vitali dei pazienti. La nostra Federazione è nata nel 1996 e si occupa da sempre di comunicare, divulgare e informare il grande pubblico su tutto ciò che riguarda l’emofilia, comprese le cure, le problematiche dei pazienti e la qualità della loro vita. Lo facciamo con tutti i canali possibili a nostra disposizione. Abbiamo creato anche la Fedemo Giovani, che forma i nostri dirigenti del domani. In collaborazione con gli sponsor, organizziamo nel corso dell’anno molti eventi su tutto il territorio nazionale. Ma il clou è certamente quello della Giornata mondiale». Per migliorare la qualità della vita di chi ne soffre possiamo fare di più: «Quando una famiglia scopre di avere un figlio emofiliaco, si sente cascare il mondo addosso. Ecco perché è importante essere informati e seguiti, ma anche potersi confrontare con altre famiglie che hanno già affrontato il problema. I nostri pazienti hanno bisogno di un sostegno multidisciplinare, non soltanto dell’ematologo. C’è la necessità di provvedimenti mirati. Speriamo che il Piano nazionale di ripresa e resilienza possa far ritornare la sanità di prossimità territoriale e tenga conto di queste esigenze: non tanto nella terapia di tutti i giorni, che viene programmata per tempo, quanto per le emergenze. A volte i minuti fanno la differenza tra la vita e la morte. I presidi territoriali sono fondamentali, specialmente per una diagnosi precoce».
Epatocarcinoma, i pazienti: «Vogliamo informazioni chiare sulla malattia»
EpaC Associazione Onlus ha realizzato un’importante indagine che ha dimostrato come questa aggressiva forma di tumore del fegato abbia un impatto in termini sociali ed economici non solo sui pazienti ma anche sull’intero nucleo familiare: il 75% degli intervistati ha affermato infatti di avere avuto bisogno dell’assistenza dei propri cari

Prevalentemente di sesso maschile, con una maggiore incidenza nell’età avanzata. Hanno bisogno di assistenza nel corso della propria quotidianità e di essere guidati nel percorso terapeutico assistenziale: è questo l’identikit del paziente che vive con epatocarcinoma (Hcc), un tumore del fegato che costituisce la più grave complicanza evolutiva delle patologie epatiche rappresentando la prima causa di decesso tra i pazienti con malattie croniche del fegato. L’epatocarcinoma è infatti la forma di tumore più frequente in assoluto di natura epatica, e rappresenta il quinto tumore per frequenza nei maschi e l’ottavo nelle donne. La cirrosi epatica rappresenta il fattore di rischio più importante per lo sviluppo del tumore, perché la maggior parte dei casi di neoplasia, tra l’80% e il 90%, si presenta sul fegato cirrotico. EpaC Associazione Onlus ha realizzato un’importante indagine che dimostra come questa aggressiva forma di tumore del fegato abbia un impatto in termini sociali ed economici non solo sui pazienti ma anche sull’intero nucleo familiare. Il 75% degli intervistati ha affermato infatti di avere avuto bisogno dell’assistenza dei propri cari - 41% un familiare e 31% più di un familiare - il 3% si è avvalso di un assistente retribuito e solo il 25% dichiara di non avere avuto invece alcun tipo di sostegno.
Il 52,4% degli intervistati ha manifestato la volontà di poter avere la possibilità di accedere in maniera semplice e chiara a informazioni relative alla disponibilità di terapie sperimentali, di partecipazione a trial clinici, cui spesso i pazienti vorrebbero sottoporsi pur di avere speranze di guarigione, ma alle quali nella maggior parte dei casi non riescono ad accedere perché ne ignorano l’esistenza o non riescono a trovare informazioni a riguardo. L’associazione EpaC svolge un ruolo fondamentale nel panorama italiano. È stata creata, organizzata e tuttora gestita esclusivamente dai malati di epatite C per tutelare altri malati, consapevoli e inconsapevoli. In 22 anni di attività ha fornito oltre 300mila consulenze gratuite a malati, familiari e cittadini divulgato oltre 1 milione di fascicoli informativi, organizzato convegni, campagne di informazione e stand informativi su tutto il territorio nazionale, finanziato progetti di ricerca e collaborato con enti e istituzioni sulla prevenzione. Dalla ricerca sono emersi dati particolarmente esaustivi: dalla necessità per chi vive con epatocarcinoma di avere percorsi diagnostico terapeutico assistenziali (Pdta) su base regionale, alla necessità di poter usufruire di centri di alta eccellenza che siano dotati di team multidisciplinari in grado di gestire a 360 gradi il paziente. «Oggi», dice Ivan Gardini, presidente dell'Associazione EpaC Onlus, «siamo di fronte a una duplice sfida rappresentata dalla necessità di favorire una sempre maggiore conoscenza dei rischi legati alla malattia epatica avanzata e dal bisogno quanto mai essenziale di promuovere una collaborazione sinergica di tutti gli interlocutori coinvolti nel trattamento della patologia. I pazienti con epatocarcinoma, infatti, presentano spesso comorbidità e anche per questo motivo è necessario che vengano seguiti da una squadra multidisciplinare che metta insieme le diverse competenze di epatologi, oncologi e gastroenterologi».
Sono infatti ancora troppi i pazienti che si recano in una o più strutture inadeguate, alla ricerca della corretta capacità strumentale diagnostica e terapeutica di ultima generazione: una pratica ancora oggi eccessivamente diffusa che non consente una razionalizzazione di tempo e risorse economiche che gravano oltre che sui pazienti anche sul Sistema sanitario nazionale. E infatti per ottenere una diagnosi completa, Il 63% dichiara di essersi dovuto rivolgere ad una o più strutture oltre a quella in cui erano in carico: il 53% per propria scelta, il 30% su indicazione dello stesso specialista e il 17% perché la struttura non era attrezzata.
«Questa sinergia tra gli interlocutori», continua Gardini, «potrà rappresentare un grande aiuto per migliorare la gestione non solo per i pazienti ma anche per i caregiver, favorendo la costruzione di reti locali e regionali al fine di tracciare percorsi rapidi verso strutture ospedaliere di alta specializzazione. Necessità che appaiono quanto mai chiare ed evidenti da questa indagine».
È possibile consultare il report completo visitando il sito web www.tumorefegato.it
Associazione EpaC Onlus
Via Carlo Alberto, 41
20900 Monza (MB)
Numero Verde 800.031657
www.epac.it
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Dal mondo Roche
Path – stay tuned per il prossimo evento
Patient Associations Talks Hub - Path nasce nel 2020 con lo scopo di diffondere idee ed esperienze approfondendo il dialogo e supportando la proattività delle Associazioni di pazienti. Nel 2022 diventa un evento ibrido - presenza e virtuale - che si svolgerà a Roma nel mese di giugno

Patient Associations Talks Hub - Path nasce nel 2020 con lo scopo di diffondere idee ed esperienze approfondendo il dialogo e supportando la proattività delle Associazioni. Path è un contenitore di competenze che presenta una serie di talks in cui condividere informazioni concrete utili nello svolgimento delle attività di un'Associazione di pazienti. Nato con la veste di webinar, in ben 11 puntate, ha visto la partecipazione di oltre 30 ospiti del mondo Healthcare. Nel 2022 diventa un evento ibrido - presenza e virtuale - che si svolgerà a Roma nel mese di giugno. L’incontro si dividerà in due giorni che vedranno, attraverso momenti di formazione, informazione e discussione, le Associazioni di pazienti approfondire diverse tematiche tra cui il Piano nazionale di ripresa e resilienza e l’evidence generation, insieme a esperti del settore e rappresentanti istituzionali in un’ottica di co-creazione e mutuo valore.
Per rimanere aggiornati sugli ulteriori sviluppi dell’evento e avere maggiori informazioni: https://www.roche.it/it/pharma/iprogetti/path.html
Per saperne di più e per iscriversi agli incontri ecco il link iscriversi: www.roche.it/it/il-nostro-focus/oncologia/tumore-del-polmone/meet2talk.html
Pubblicato il rapporto Next: cambiamo approccio alle malattie neurologiche
Negli ultimi 30 anni il numero dei decessi attribuibili a patologie neurologiche è cresciuto del 39%. Anche l’incidenza di queste malattie sulla popolazione continuerà a crescere e per far fronte a questa sfida futura la Società Italiana di Neurologia ha realizzato insieme a Roche il rapporto ”Next - Neuroscience Exploring Tomorrow 2021”: una corretta assistenza passa dalla riorganizzazione del sistema

I numeri delle malattie neurologiche in Italia sono significativi: negli ultimi 30 anni il numero dei decessi attribuibili a queste patologie è cresciuto del 39%. Inoltre, a causa dell’altissima incidenza di nuovi casi l'anno di sclerosi multipla, l’Italia è considerata un’area ad alto rischio per questa malattia in Europa. Anche a causa dell’invecchiamento precoce della popolazione questi numeri sono destinati ad aumentare: si stima che l’incidenza dell’Alzheimer, che oggi colpisce 600mila persone, passerà dai circa 205mila nuovi casi all'anno del 2020 agli oltre 288mila del 2040.
In un’ottica orientata al futuro, quindi, preoccupa l'impennata delle malattie neurologiche che il Paese dovrà affrontare nei prossimi anni. Per prepararsi ora a rispondere a questa sfida futura la Società Italiana di Neurologia, Sin, ha realizzato insieme a Roche il rapporto ”Next - Neuroscience Exploring Tomorrow 2021”, presentato lo scorso 11 marzo alla stampa nella sede del ministero della Salute. La presentazione è stata l'occasione per rendere pubblica la lettera che la Sin ha indirizzato al ministro della Salute Roberto Speranza, firmata anche dal Segretario della Commissione Affari Sociali e Sanità della Camera dei Deputati On. Fabiola Bologna, in cui si richiede l'istituzione di un Tavolo inter-istituzionale permanente che porti al varo di un Piano nazionale per il riordino del settore e il disegno delle future strategie per la neurologia.
Per garantire una corretta assistenza è necessario partire dalla riorganizzazione del Sistema: ai modelli organizzativi in neurologia è dedicato un capitolo del Rapporto Next. «Per rispondere adeguatamente alle molteplici istanze è necessario agire su quattro diversi livelli: aumentare il numero dei neurologi; potenziare le Unità Operative Complesse di Neurologia; incrementare a 5 anni la durata della scuola di specializzazione in Neurologia; aumentare i centri di eccellenza per il trattamento delle patologie neurologiche con copertura omogenea del territorio nazionale», spiega Gioacchino Tedeschi, past president della Società Italiana di Neurologia, uno degli autori del capitolo. La gestione delle malattie neurologiche, oltre che sul fronte ospedaliero, va affrontata anche su altri versanti. «Sono indispensabili un'adeguata prevenzione a cominciare dagli stili di vita, l'accesso equo ed uniforme sul territorio nazionale alla diagnosi ed a cure personalizzate ed innovative, il rafforzamento dell'assistenza territoriale e domiciliare», dichiara Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva.
Investire i fondi stanziati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza puntando anche sull'innovazione digitale sarebbe propedeutico ad integrare al meglio l'assistenza centrale con quella territoriale e permettere ai pazienti di entrare in relazione con il Servizio sanitario in maniera efficace, così come ormai succede per la maggioranza delle prestazioni di servizi. Tuttavia si registra ancora una certa diffidenza verso le tecnologie digitali applicate alla medicina.
«C’è la necessità», sottolinea Luca Pani dell'Università di Modena e Reggio Emilia, «di far comprendere non solo agli utilizzatori finali ma anche ai decisori politici, le enormi opportunità della digital health che consente di ridurre i carichi di lavoro, di aumentare l'efficienza e di ottimizzare i costi. Ma è anche utile», aggiunge Pani «realizzare una sorta di cartello sulle malattie neurologiche in chiave digitale che favorisca la condivisione delle esperienze e consenta di elaborare modelli comuni da proporre agli organismi istituzionali». Ma per attuare con successo questa riorganizzazione non può mancare il coinvolgimento più ampio possibile di specialisti, Istituzioni, pazienti, politici.